Giorgio Bàrberi Squarotti così si esprime: “E’ un’opera molto nobile e alta: e l’aspetto saggistico non contraddice affatto alla tensione del racconto e alla persuasività dei personaggi.”
Cap. XXIII
Era difficile per chiunque tirarsi fuori, vivere una vita appartata, lasciare che gli avvenimenti si esaurissero, le agitazioni si placassero per poi tornare fuori come da un letargo.
Impossibile era per un magistrato chiamato quotidianamente ad intervenire, ad esprimere giudizi di valutazione, ad essere in qualche modo il termometro della situazione.
Michele capiva tutto questo, ma provava ugualmente una certa difficoltà ad essere in sincronia con gli avvenimenti.
Le aggressioni al professor Trimarchi, all’Istituto di diritto privato, i danneggiamenti alle attrezzature didattiche nell’ università, i cortei continui, ossessivi, organizzati per sostenere, ora per dissentire, la violenza che era insita in tutto ciò, lo facevano riflettere, tornare sulle proprie idee per capire.
Era difficile capire una realtà che a volte gli sembrava avesse perso il senso di orientamento.
Le azioni dinamitarde uscivano da qualsiasi logica compatibile con i principi di libertà e di democrazia, dirette unicamente a degradare la situazione in modo da renderla vulnerabile.
Alla Fiera, l’esplosione di due bombe aveva provocato cinque feriti. Ordigni con combinazione ad orologeria venivano segnalati in altre parti della città.
La contestazione si allontanava a grandi passi dai motivi che l’avevano generata. Era cominciato come movimento per l’affermazione della libertà, della dignità, ora veniva fuori il volto della violenza, della rabbia assassina, della morte.
Un giorno, uscendo dall’ufficio per tornare a casa, si era trovato ad essere spettatore di tafferugli tra la polizia e qualche centinaio di giovani armati di bastoni, fionde con le quali lanciavano bulloni, palline di acciaio.
Il contatto era difficile. I lacrimogeni cercavano di disperdere i dimostranti i quali, secondo la tattica della guerriglia urbana, si frazionavano in piccoli gruppi e sbucavano dalle varie direzioni tenendo i poliziotti sotto il tiro dei bulloni che colpivano malgrado riparati dagli scudi di plastica.
Il funzionario, con la fascia tricolore in mano, simbolo dell’autorità dello Stato, cercava di capire verso quale direzione sferrare un attacco che li togliesse dall’accerchiamento quando un gruppo di tre giovani agenti partì agitando il manganello decisi a fracassare le ossa a chi aveva ferito un loro compagno.
I dimostranti, approfittando dell’indecisione del funzionario e dell’esiguo numero dei poliziotti, non si mossero, attesero i tre ragazzi i quali vennero malmenati furiosamente a colpi di bastoni, di calci e li avrebbero finiti se gli altri commilitoni, accortisi dell’infausta sortita, senza aspettare l’ordine di caricare, non fossero accorsi in massa a portare aiuto ai tre disgraziati che trovarono per terra, privi di armi, con i volti sfigurati dalle percosse e dal sangue.
Michele si era infilato in un portone e, da quel punto di osservazione, aveva potuto seguire ogni fase degli scontri.
Ciò che aveva visto era assurdo, inutile, dannoso per tutti. I tre poliziotti erano ragazzi di una ventina d’anni, con le mani ancora gonfie di calli. Avevano lasciato il sud per sfuggire alla miseria di una condizione umile ed avvilente. Per avere la giornata sicura, sicuro il salario e forse non avrebbero mai immaginato che sarebbero finiti in una città strana dove la gente che dice di lottare per le classi più umili se la prende con i più disgraziati.
Forse entrava nella logica, nel disegno del collega Russo. Un martire vale di più di un manifesto. Ma a quale scopo?
Gli operai avevano capito il pericolo e nelle manifestazioni cominciavano a gestire il servizio d’ordine autonomamente, proprio al fine di filtrare le masse, di enucleare ed estromettere gli studenti, gente che del lavoro, della fatica fisica e dell’umiliazione morale non aveva esperienza neanche teorica, e della cui presenza bisognava sempre temere perché non perdevano una minima occasione per far degenerare manifestazioni rivendicative che dovevano essere assolutamente corrette per non rischiare di essere impopolari e fare così il gioco dei padroni.
La gente comune non ne poteva più delle scorribande violente, delle mura imbrattate di scritte oltraggiose, offensive, ma non aveva la forza di reagire. Subiva sperando che sarebbe finita e tutto sarebbe tornato come prima, una città attiva, laboriosa, dove c’era spazio per chiunque avesse avuto voglia di lavorare.
Ma la violenza, come si sa, genera violenza ed anche tra gli operai era sempre più difficile mantenere la calma, evitare azioni inconsulte, comportamenti che potessero rivelarsi negativi per i loro effetti.
I fatti avevano superato le previsioni e si erano allontanati da quei progetti di giustizia, libertà e pace sociale che erano stati i suoi più grandi ideali.
La violenza era inutile imbarbarimento della lotta che doveva rimanere lotta civile, di classe che vuole maggiore dignità, maggior peso nelle scelte politiche, nei programmi economici, maggior sicurezza e garanzia del posto di lavoro.
Le azioni dinamitarde che con sempre maggior frequenza si verificavano in varie città d’ Italia cominciavano a fargli sorgere il sospetto che vi fossero forze politiche a cui faceva gioco aumentare la tensione, creare una situazione d’incertezza generale per realizzare chissà quale bieco progetto politico.
I contadini, gli operai sono leali nella lotta – si diceva ogni volta che si soffermava a voler decifrare un episodio dinamitardo, – sono capaci di fare rivoluzioni, ma le dichiarano al nemico. Non nascondono il loro volto dietro i fazzoletti, non lanciano il sasso e nascondono la mano. Sono forse ingenui, ma certamente leali verso gli avversari.
Ad Avola, come a Battipaglia hanno pagato con il sangue la loro azione di protesta.-
In quella che era un’atroce confusione ideale, l’unica certezza era Annalisa.
Quando era in sua compagnia riusciva a considerare con sufficiente distacco gli avvenimenti, a non tenere in considerazione le schermaglie, le dispute, gli arrivismi, i falsi moralismi, gli schieramenti dei suoi colleghi.
Erano passati più di due anni da quando aveva messo piede nella casa lombarda e, malgrado il suo lavoro lo portasse a conoscere molte persone, non aveva fatto alcuna amicizia.
Agli inizi aveva sperato di inserirsi nel mondo universitario cominciando a frequentare l’istituto di Diritto Pubblico, ma le manifestazioni, l’occupazione di alcune facoltà, la violenza che prendeva piede a discapito della dialettica, gli fecero temere che potesse essere coinvolto in situazioni che rifiutava sia per principio, sia per una specie di repulsione fisica alla violenza.
Così provò in una città enorme la solitudine.
Gli sforzi per inserirsi si dimostrarono inutili, come inutili furono le soste alla stazione centrale con la speranza di incontrare uno dei tanti volti che in estate si vedevano al suo paese.
Annalisa fu così la persona che gli diede di nuovo il piacere di esistere, senso alle sue giornate altrimenti abbruttite da una tranquillità d’animo per essere esercitato al meglio.
Anche se potevano incontrarsi a casa, preferivano darsi appuntamento, come la prima volta, in piazza.
Andavano a prendere qualcosa al bar, un’occhiata ai giornali, sommario commento ai fatti del giorno, passeggiata in Galleria che diventò familiare come il corso del paese.
In compagnia di Annalisa la gente frettolosa che si incrociava diventava meno sfuggente, più umano il rapporto.
Il pomeriggio di un sabato di maggio assolato e piacevole da godere in lunghe passeggiate Michele, appena usciti dal loro solito bar disse ad Annalisa che dovevano andare a casa perchè le doveva far vedere una cosa.
Alle insistenti domande riuscì a resistere anche se fremeva dalla voglia di dire di ciò che si trattava.
Giunti nei pressi di casa Michele, con l’ingenuità di un fanciullo, le chiese: Non vedi niente?-
E lei: – Cosa c’è da vedere, non capisco.-
Michele accarezzò una fiat 128 di colore blu, nuova fiammante che stava posteggiata vicino al portone di casa come fosse una creatura.
A tavola Michele tirò fuori dalla tasca della giacca un pacchetto e lo porse ad Annalisa che stupita scartocciò l’involucro e vide un bellissimo anello di oro bianco a forma di fiore con i petali di turchesi ed il cuore di brillante.
E’ bellissimo – mormorò cercando di dissimulare una commozione crescente.
Michele approfittò dell’atmosfera per chiederle se voleva sposarlo.
Si vedevano spesso e specialmente il sabato e la domenica era difficile che non stessero insieme. I loro rapporti sessuali erano completi ma ciò non toglieva niente al fascino, all’importanza del matrimonio.
La coppia legalizzata dal vincolo matrimoniale era in crisi come erano in crisi tutte le istituzioni.
La polemica sorta tra cattolici e laici sul divorzio aveva contribuito a creare confusione ed inficiato l’istituto del matrimonio.
Molti giovani contestavano ogni legame con la tradizione sia religiosa che giuridica; convivevano legati dal piacere di stare insieme che poteva durare un mese, un anno, per sempre, ma senza il vincolo che è riduttivo se vi sono sentimenti solidi, schiavizzante e tiranno se si scoprono caduchi.
Michele aveva riflettuto a lungo prima di fare la proposta.
Aveva dovuto affrontare e risolvere altre questioni importanti come il suo rapporto con Maria, la ragazza del paese che aveva sempre sognato di sposare.
Tutto sembrava provvisorio, mutevole.
Le femmine contestavano la famiglia perché in essa la donna non ha un ruolo socialmente rilevante, ma la funzione di procreare e di lavorare senza nessuna gratitudine da parte della società maschilista che conserva il potere e lo esercita sempre a proprio vantaggio.
Aveva istinti schiavistici, forse, che lo portavano a desiderare il matrimonio?
Aveva solo bisogno di godere completi gli affetti, il calore della famiglia. Forse era anche questa una forma di egoismo, mettere su famiglia per soddisfare un proprio bisogno di affetto, di amore. Ma ciò, anche se cercava mille osservazioni non lo convinceva. Non voleva essere soltanto un prendere, ma anche dare; aveva rotto con Maria perché il rapporto si preannunciava non così completo, con Annalisa era diverso.
Formalizzare il loro rapporto con il matrimonio lo considerava esigenza morale oltre che sociale.
Troppe emozioni in un solo giorno. Non ti pare che possono far male alla salute? – Annalisa dopo una pausa che sembrò lunghissima, e continuando – E’ troppo importante quello che hai detto. Sarà bene riflettere a stomaco pieno – e prese la carta per ordinare risotto alla milanese.
Ruppe così l’ansiosa attesa di Michele che rimase deluso ed ammirato nello stesso tempo.
In fondo si era tolto una specie di peso dallo stomaco. Ora stava meglio. La risposta poteva darla quando voleva, importante era averle detto che la sua intenzione era di regolarizzare il loro rapporto davanti alla legge, a Dio e alla società civile.
“Il Messaggero” 15 agosto 1985 – S. P.: “S. Benedetto. Il romanzo del dr. Mauro Crocetta – Ecco ‘La toga stracciata’ ”
“Flash” novembre 1985 – anno VII – n. 92 – pag. 19 – Tito Pasqualetti: “La toga stracciata di Mauro Crocetta” -
“Riviera della palme” anno I, n. 3 – febbraio 1986 –inserto di Arte Cultura Attualità – Giuseppe Floridia: recensione a “La toga stracciata”
“L’Ancora” 12 gennaio 1986 – anno III – N. 1 – G. C. Vescovo Giuseppe Chiaretti: Mauro Crocetta – La toga stracciata”
“la Vita Picena” – 8 marzo 1986 – anno LXXVII – n. 4 – Giuseppe Floridia: In biblioteca – “Vita Picena libri – Mauro Crocetta – La toga stracciata”
27 luglio 2016: “City Rumors”: “Martinsicuro, Martinbook Festival: il programma della settima edizione” (…) Sabato 30 luglio, alla Torre Carlo V di Martinsicuro, presentazione del romanzo “La toga stracciata” di Mauro Crocetta, a cura del giornalista RAI Roberto Toppetta – moderatrice della presentazione la giornalista Giovanna Frastalli
27 luglio 2016: “Teramo News”: “Al via la kermesse culturale organizzata dal Comune di Martinsicuro in collaborazione con l’associazione Martinbook” (…)
Sabato 30 luglio si torna alla Torre Carlo V di Martinsicuro per il gran finale. Presentazione del romanzo “La toga stracciata” di Mauro Crocetta, a cura del giornalista RAI Roberto Toppetta – moderatrice della presentazione la giornalista Giovanna Frastalli
27 luglio 2016: “Il Martino.it”: Simona Borghese “Martinsicuro, tutto pronto per la settima edizione del Martinbook festival” (…) Roberto Toppetta per la presentazione del romanzo “La toga stracciata” di Mauro Crocetta, moderatrice della presentazione Giovanna Frastalli
27 luglio 2016: “il Quotidiano.it” – “Martinsicuro, tutto pronto per la settima edizione del Martinbook festival (…) Roberto Toppetta per la presentazione del romanzo “La toga stracciata” di Mauro Crocetta, moderatrice della presentazione Giovanna Frastalli”
30 luglio 2016: “Piceno 24” – “Martinbook, gran finale alla Torre Carlo V (…) la presentazione del romanzo “La toga stracciata” di Mauro Crocetta”
30 luglio 2016: “Corriere Adriatico” – Abruzzo – Gloria Caioni: “Si chiude Martinbook tra libri e documentari – Stasera l’umanesimo protagonista alla Torre Carlo V”
1 agosto 2016: “FOTOSPOT Agenzia” – Maurizio Norcini: “A San Benedetto ‘La toga stracciata’ (Palazzina Azzurra)”
12 settembre 2016: SLC CGIL Puglia – Dino Cassone: “La toga stracciata – Michele Parente, contadino in Puglia, magistrato a Milano” di Mauro Crocetta
4 febbraio 2017: “La Gazzetta del Mezzogiorno” – pag. XII, Foggia Provincia – Trinitapoli – G.S.: “E il libro diventa spettacolo”
Michele Parente, giovane intellettuale, ricco di ideali e di passioni, avrebbe voluto fare, come il padre, il contadino in Puglia e si ritrova magistrato a Milano negli anni del boom economico e della contestazione giovanile.
Alter ego di Mauro Crocetta, allora commissario di polizia a Pavia, Michele constata da vicino l’alienazione dei terroni meridionali fuggiti al Nord e le distorsioni ideologiche del Sessantotto, esasperate per fini oscuri dal quadro politico. Frequentando le fabbriche e le Università milanesi, egli si accorge che il boom economico viene fatto sulla pelle dei lavoratori del Sud, desertificato dall’emigrazione, e che una parte della magistratura subisce il fascino perverso della violenza eversiva. Perciò promette a se stesso che straccerà la toga il giorno che dovesse abdicare anche lui, come il collega Russo, al ruolo di magistrato integerrimo.
Lucida indagine sulla realtà politica,sociale ed economica, il romanzo si conclude la notte del 20 novembre del 1969, poche ore dopo la morte del poliziotto Antonio Annarumma, vittima del terrorismo. Niente sarà più come prima. Quella notte Michele apprende che presto avrà un figlio e annota amaramente su un pezzo di carta: “ E’ terribile la gioia di diventare padre quando un altro padre abbraccia il figlio morto”.
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