Poetica

Poesia religiosa e Poesia civile

 Nel 1956 le lotte contadine nella mia terra di capitanata, i carri armati sovietici a Budapest mi colpirono profondamente malgrado avessi soltanto 14 anni. Vinti dalla prepotenza gli uni e gli altri, saranno loro soltanto, in seguito, ad interessare i miei pensieri, a sollecitare la mia scrittura condizionata anche dalla scomparsa di mia madre, avvenuta due anni dopo, che vissi in modo traumatico.

Nei vinti avevo identificato l’Uomo della Croce di cui volli raccontare le tristezze, i dolori, le sconfitte, con una parola diventata verbo, restituita cioè alla funzione sacra di rivelazione della condizione e mediazione di umanità.

Erano gli anni della ricerca e degli sperimentalismi; gli anni in cui ricercavo il senso profondo di una lingua radicata ed una cultura antica che, modificata nei secoli, appariva a me un po’ consumata, usurata da un uso un po’ sciatto.

Intanto la mia attenzione ai problemi si andava sempre più colorando di quelle atmosfere di chiara connotazione mediterranea.

La nascita ce la portiamo dentro fino alla morte.

La lettura dei laudari medioevali e prima ancora i lirici latini e quelli greci, mi offriva modelli di una poesia totale, una poesia cioè che usava la parola come invenzione autentica per autentici sentimenti, emozioni.

Poesia racconto breve, intenso, di un frammento di esistenza ( Saffo, Catullo), più articolato , disteso (Tibullo, Properzio), drammatico e sacro (Jacopone da Todi); poesia sempre intesa come capacità, possibilità di articolare un pensiero, sedimentare un sentimento in quegli elementi fondamentali che attengono all’uomo.

Poesia frammento di vita o racconto articolato, dunque.
Nasceva per tale necessità il mio teatro con Giuda scritto nel 1964.
Da una parte poesie brevi raccolte in sillogi (Liriche 1958, Bozzetti 1963, Frammenti lirici 1965) dall’altro una poesia che spinta dalla necessità di un più ampio respiro andava organizzandosi in una forma teatrale che tenesse conto non solo di problemi di poetica, ma che si rimpolpasse di pensiero. Pensiero che, poiché riguarda sempre la tragedia dell’esistere, non poteva che interessarsi del personaggio più problematico sia per la sua esistenza storica che per la funzione catartica, che ha condizionato da due millenni le vicende dell’occidente : GIUDA.

Il problema capovolto. Il male prima, la negazione; il bene, Cristo esistenza subordinata alla prima o forse intersecantesi con la prima, ne è parte fondamentale.

Non avevo che necessità di gridare che non possiamo vivere separati, distanti, indifferenti.

Cristo nell’orto degli ulivi mentre raccoglie tutta la sua umanità nella notte dell’angoscia e della tristezza chiede perdono a Dio e a Giuda. E Giuda, nel tormento che precede il gesto finale si interroga sul grave problema del bene e del male negli uomini mentre scorge nella semplice natura la sacralità immacolata di una preghiera ( Le nuvole diventano cupe / come pensieri tristi / nel cielo dove ogni stella è spenta / ed il sibilo leggero del vento / è una preghiera)

Giorgio Barberi Squarotti dirà nella prefazione all’edizione FORUM 1981 “ ciò che costituisce, comunque, carattere distintivo della tragedia di Crocetta, è la capacità di dare lunghi echi d’anima alla levità ed alla musicalità del discorso lirico secondo cui è condotta l’intera opera anche nei momenti più disperati e dolorosi…… La capacità di tenere un registro elevatissimo e di estrema tensione tutta l’opera, senza interruzioni e cadute, dimostra la singolarità dell’esperienza teatrale di Crocetta”

Da una parte ancora frammenti di vita fissata nelle poesie brevi di Elegie per un inverno ( 1967), Vita e Morte (1967), Una notte per Maria (1968-69), Canto Nuziale ( 1968), Il Sapore della terra (1969), Uomini Soli (1970), Cronache quotidiane ( 1970-71), Alle soglie della vita (1971-73), La miseria in tasca ( 1984), Fantastica Visione (1984), dall’altra parte il teatro come poesia dilatata.

Poesia sempre, dunque, pregna di atmosfere e solarità mediterranee, di simbologie e di una tradizione culturale che nel tragico e nel mito hanno gli umori vitali.
I tragici greci, certamente, ma anche la forza del pensiero di Seneca, le atmosfere di Calderon de la Barca, la violenta atmosfera pregna di profumi di vita e di morte di Garcìa Lorca.

Una Sera d’estate (1967) è la storia di una promessa tradita, di un amore che coinvolge nel dramma il Vento, gli Alberi, la Luna, personaggi e figure di un racconto che non è solo di uomini, ma di tutta la natura che non si rassegna ad essere scenografia e diventa personaggio.

Come nel Giuda, la morte si intreccia con la vita fino a rendere quest’ultima densa di significati, in virtù della prima, che perciò assolve ad una funzione catartica.

Nella prefazione al Volume Teatro del 1977, comprendente i drammi :Una sera d’estate, Una famiglia, Canto della vita, Canto della morte, Canto della speranza, Giovanni Bonetto sottolinea “la condizione dei personaggi, di uomini messa continuamente in discussione; il loro disfacimento che è disfacimento dell’uomo-materia frutto della cultura dei nostri tempi”.

La morte, dunque, liberazione.

Maria, personaggio di “Una famiglia” dirà:” quando questa finzione / finisce / ed il nostro corpo/ lo riprende la terra/ tutto torna sereno e felice/ come da sempre”. Anelito di una umanità dispersa; ricerca disperata della verità oltre il muro, oltre il limite. Voce inascoltata, grido sordo del dolore che consuma la nostra esistenza: Desiderio di Infinito, di Eterno nei ritmi dei giorni, delle stagioni, oltre la caducità di un corpo destinato a concimare la terra.

Rinascere come “Cristo / che nasce / e muore ogni anno” (Dialogo II) . Rinascere dalla morte, non più scheletro terrificante con la falce apocalittica tra le ossute mani, ma fanciulla bellissima, seducente, che invita l’uomo travagliato dai dubbi e dai pensieri a bere “latte di sicomoro/ per annullare ogni ricordo/ ed erbe che / masticate/ toglieranno ogni affanno ( Dialogo I).

Morte che è liberarsi da tutto ciò che ha reso angosciosa la vita; il niente che torna al tutto “nudo/ con i pensieri/ tra le mani/ in dono” a quella “Luce crocifissa”, a quel Cristo che ora ci è più vicino e prende di noi la tristezza dei giorni vissuti in un’atroce agonia (dialogo III).

Discorso ripreso con maggiore articolazione simbolica e drammatica nel Gioco, premio Trinità 1981.

La favola della vita diventa Epos in cui gli eterni problemi del mistero della vita e della morte si concentrano per sciogliersi nell’uomo disintegrato dalla luce “ che gli veniva / da dentro… Pulviscolo dorato”. La “Storia” è belva terribile dalle corna d’acciaio, sconfitta dalla forza della vita che continua nel ventre fecondo di una giovane fanciulla, Freschezza ( una sorta di Cibele bambina e poi fanciulla), la grande madre di una Umanità distrutta che rinasce “ dallo strazio / delle membra/ dalla dolcezza/ dell’anima” nell’epifania “ di cieli profondi/e puliti”.

Il Gioco, scritto nel 1975, è un punto d’arrivo importante sia per le tematiche affrontate, sia per le soluzioni stilistiche di cui i Dialoghi costituiscono, nella loro ripartizione tematica, il precedente importante.

Tra questi due momenti vengono scritti i drammi “Una famiglia” (1970), drammatica rappresentazione della crisi della famiglia moderna, conflittualità di valori antichi con una cosiddetta evoluzione dei costumi; “Contestazione” (1971) che fissa storicamente un momento importante della vita culturale e civile italiana al di là degli opportunismi ed utilitaristici conformismi; “Borgo Ticino” (1972) che è rappresentazione di uno scampolo di società malavitosa in una città in quegli anni piena di fervori, Pavia, sempre utilizzando la forma poetica collaudata sia come possibilità di scrittura totale, sia come strumento di più alta comunicazione.

Seguono temporalmente: “Questa Povera vita” (1978), “La Nostra Pelle” (1978), due drammi che completano la trilogia iniziata con Una famiglia sulla crisi dei rapporti, sulla difficoltà di coniugare il vecchio ed il nuovo, scaduta la capacità omologante del senso e sentimento della famiglia.

Con lo “Stabat Mater Dolorosa” (1978) che ebbe come primo titolo lo stereotipato e provocatorio “Vittima del dovere”, si torna dichiaratamente al centrale tema della sacralità della vita e di tutti i sentimenti ad essa correlati.

In uno scenario michelangiolesco una madre con il figlio poliziotto ammazzato in un agguato terroristico in braccio canta un lamento funebre insieme alle donne amiche, alla sposa; lamento disperato “ Figlio/ ritorni alla vita”, e la sposa “Sposo / la tua promessa!/ E’ di spine il tuo silenzio/ Preparerò il letto / con lenzuola/ di lino/ ricamato/ Ma il lino/ ha fasciato/ le ginocchia/ Ha coperto/ il corpo freddo/ nella bara”.

Non solo.

E’ il grido disperato, di rivolta contro chi viene considerato responsabile ( Quanti misfatti misteriosi ed impuniti in quegli anni!) della morte del giovane; contro chi parlerà di Patria, di una patria incomprensibile per chi ha scelto semplicemente di lavorare per riscattarsi dalla miseria per cui la sposa dirà: “ la colpa ricade su di noi/ la colpa dei poveri/ cui la schiena ha piegato/ la miseria” e griderà in faccia alle istituzioni rappresentate dalle alte gerarchie “ facce senza vergogna/ andate via”.

Si era negli anni ‘70 . La storia di questo povero Paese è però continuata con funerali di Stato, con vittime innocenti, con stragi mai scoperte, con “facce senza vergogna” immutate.

Rifugiarsi nella solitudine dell’anima, nell’ascolto di pulsioni antiche; rileggere il passato, gli affetti mancati, le fede ricercata affannosamente, felicemente ritrovata. La fede nell’uomo che grida “ Egregia res / est / mortem condiscere” e che ti promette “ gaudete in illa die et exultate”, ammonendoci che “ nihil ex his quae habemus / necessarium est”.

“Il Sogno” (1982) di cui Giorgio Barberi Squarotti dirà “ fascinoso e suggestivo per la grandiosa concezione filosofico-religiosa che ne costituisce il tema di fondo, reso con un linguaggio di assoluta purezza, scarno ed essenziale fino alla perfezione” è il momento della estrema sintesi del percorso poetico e di assoluta iterazione con la creazione plastica.

La scultura, parola modellata, ritmi dello spazio e del pensiero, mediazione più diretta tra la mia poetica e gli altri.

Il Sogno, pubblicato nel 1989 con tavole raffiguranti alcune mie sculture è il tentativo di coinvolgere in un unico discorso le due anime.
Se nella parola c’è la speranza fondata sulla verità “ ad legem naturae revertamur”, nella scultura c’è la dignità offesa, mortificata di “Lager”, “Apartheid”, la sacralità dell’uomo offeso del “Crocefisso”, il grido soffocato di “Dramma”, la maestà della vita che continua nella maternità di “Principessa”, la speranza di salvezza in “Fuga dal nucleare” e “Diaspora”, il mito della vita che è divina anche nella concezione pre- cristiana in “Leda con il cigno”, il terribile dramma di questa fine di secolo XX con “Inquinamento”.

Nei romanzi che seguono, “Storia di cafoni” (Lacaita,1982), “La toga stracciata” (Lacaita,1985), la problematica si arricchisce di una componente antropologica senza rinunciare all’attenzione fondamentale su tutto ciò che rappresentano i riferimenti forti dell’esistenza.

La storia di questo secolo viene raccontata con l’Epos delle piccole cose che forse sono quelle che hanno maggiormente determinato comportamenti e situazioni importanti.

I personaggi sentono l’impegno sul fronte civile perché sentono la necessità di una affermazione della sacralità della vita.

L’impegno del cafone pugliese che non si piega alla umiliante prepotenza è la stessa del magistrato Michele Parente che annota, in un libro segreto, sentenze che non saranno mai lette che sono quelle della propria anima che ha sete di giustizia, non di vendetta, di giustizia per le umiliazioni dei derelitti, degli emarginati, degli sconfitti di una società che massacra, trafigge.

Canto che si fa lamentazione funebre, disperazione per l’assurdità della violenza, l’immoralità della guerra ne “Il sentimento del Dolore” (1992).

Quest’ultimo volume comprende sia la poesia che ne dà il titolo, che una sorta di corrispondenza poetica dal fronte della Guerra del Golfo del 1991, presentato per la mostra antologica di scultura, con il patrocinio del Centro Alti Studi Europei e della Scuola del libro di Urbino, nel Palazzo Ducale nell’aprile del 1992.

Questa guerra santa, semplicemente tragica e blasfema, è la negazione di ogni uomo, è follia collettiva, è terribile realtà che ancora e più violenta è presente nella storia.

“Il lamento del Profeta/ è vento tra le dune/, il dolore è aria greve, trasudante disperazione e sangue.

Di questa opera dirà ancora Giorgio Barberi Squarotti: “ Si dimostra ancora una volta la Sua altissima passione morale, civile, religiosa. Sono versi fortemente scanditi, netti, vigorosissimi” e Carlo Bo nel sottolineare la attenzione a rendere un “unicum” la poesia e la scultura, ne testimonia la valenza dei risultati.

Esigenza di testimoniare tutto quanto si è vissuto sia direttamente che nella memoria dei padri è l’ultimo poema breve “1900”

La parola essenziale modulata su ritmi brevi ad evocare tutto quanto di luttuoso ha prodotto questo secolo che ormai volge alla fine.

La conquista di spazi infiniti, di terre lontane, siderali, lo smarrimento di noi a noi stessi.
Ardite conquiste ma anche cadute nel vuoto infinito, “nell’orrido abisso”.
E tutto ciò che sembrava acquisito è rimesso in discussione perché si è dimenticato, nei progetti, la tutela della dignità dell’uomo.
I giovani massacrati sul Carso come quelli falciati dalla mitraglia nella steppa russa o schiacciati dai carriarmati a Budapest, a Praga, in Afganistan o nel Cossovo sono tutti vittime di una uguale, assurda violenza, sono tutti a gridare la quotidiana sconfitta.

Sono essi i nostri entusiasmi crocifissi, le nostre nuvole rabbuiate e tristi, il nostro cielo coperto “ di orrido velo”.

Ancora depredato il corpo ignudo, il costato violentato, le carni martoriate. Ancora “la vita/ confusa/ tra le tante / macerie”.

Una storia di lutti, di stragi, di tribali e macabre violenze: Marzabotto, Piazzale Loreto, Portella della ginestra. Una storia imbarbarita dal più sfrenato machiavellismo di intramontabili ed impudenti personaggi: I morti di Brescia, dell’Italicus e poi quelli di Capaci, di via d’Amelio a Palermo.

Una lunga scia di sangue che continua a seminare lutti e dolori come i cinque morti della bomba fatta esplodere in via dei Georgofili a Firenze, oltraggio alla vita degli uomini e della nostra civiltà. Una triste terribile storia.

Il XX secolo si è esaltato per la “soluzione finale”, per lo sterminio di interi popoli, per il genocidio non soltanto di Ebrei e di Rom, ma anche di Vietnamiti, Albanesi, Cossovari, primitivi dell’Amazzonia, Pellerossi degli USA.

Forse Dio, stanco, “ ci ha lasciati/ nella terribile/ solitudine/ in una terra/ impazzita/ in una notte/ infinita”.

Mauro Crocetta
Martinsicuro, 27.05.1993 

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